Recensione “Sola a presidiare la fortezza” di Flannery O’Connor

Una nuova edizione per un epistolario che tratteggia l’America degli anni Cinquanta; una raccolta di lettere – della scrittrice americana, di origine irlandese, Flannery O’Connor – che era già stata pubblicata dalla Einaudi e che la Minimum fax (casa editrice che apprezzo molto) ha riproposto nel 2012, implementandola con pezzi inediti.

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Durante le prime pagine mi sono sentita un po’ spiazzata, essendo ogni epistola a firma della stessa mittente, mi sentivo in difetto di “dati”; temevo non avrei capito tutto, desideravo leggere le risposte o le domande a cui la Flannery rispondeva sotto ai miei occhi… poi ho girato ancora una pagina, poi un’altra e un’altra ancora fino a ritrovarmi completamente avvinta dentro il quotidiano di una scrittrice che ho capito rotonda, piena, ricca, totalizzante sia in scrittura sia in personalità. Chissà se lei, con tutte le sue opinioni circa i lettori, avrà gradito io l’abbia letta. Chissà se mi avrà messa tra i Lettori Modello (quelli che prediligeva) o tra i Lettori Empirici… chissà se si è aggiustata, elegantemente of course, gli occhiali sul naso (tradendo un leggero disappunto) mentre io mi facevo, da quaggiù, i fatti suoi…

Definire questa raccolta Bellissima è riduttivo, credetemi!

Innanzitutto la copertina: strepitosa!

Il pavone è l’animale amato dalla scrittrice, talmente amato da allevarlo e da possederne centinaia… a discapito dei cani che avrebbe voluto avere!

Ora che, a malincuore, ho terminato la lettura di queste lettere non potrei associare alla Flannery nessun altro animale. Il pavone ha un simbolismo importante, a doppia mandata, si potrebbe dire, giacché unisce i valori diurni delle energie solari con i valori notturni della presunzione e dell’indiscrezione… e la O’Connor, con irriverenza e schiettezza farciva le sue frasi e lo faceva – questo è il bello! – con eleganza stilistica e oculata scelta lessicale. Elegante, regale, come i Pavoni. Pavoni che – giacché riescono a uccidere i serpenti dai quali, si scrive, riescano perfino a sublimarne il veleno – rappresentano anche la vittoria del Bene sul Male e se scrivere è uno strumento di guerra (non solo politica ma – anche e sopratutto – intima) di certo la scrittura è stata emblema dell’arsenale della O’Connor, una scrittrice guerriera, in lotta contro un destino infausto che le ha portato via il padre quand’era bambina, lasciandola erede della stessa malattia che lo strappò da lei, il lupus eritematoso sistemico, che l’avrebbe portata a morte precoce a soli trentanove anni ma che, a detta dei medici, avrebbe dovuto “portarla in altro mondo” già molti anni prima.

Flannery O’Connor ha fatto parlare di sé sin da piccolissima, quando all’età di sei anni insegnò a un pollo a camminare all’indietro, fu questa – a detta dell’autrice – la sua prima occasione di celebrità. Gli inviati della rivista Pathè News filmarono la piccola “Mary O’Connor” con il suo pollo e quelle immagini fecero il giro del paese. Flannery disse in seguito: «C’ero anch’io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stata solo una anticlimax»; con i polli ha avuto genesi, dunque, la passione per i pennuti.

Da una lettera Ad «A.»:

(…) Quanto al pavone, è proprio in certi posti che è dato trovare i pavoni, e dove c’è un pavone c’è anche una mappa dell’universo. Per il prete il pavone rappresenta la Trasfigurazione, di cui è senz’altro un simbolo fra i più belli. Nella simbologia medievale rappresenta anche la Chiesa: gli occhi sono gli occhi della Chiesa.

Ma partiamo dal titolo:

Sola a presidiare la fortezza

Questa frase è stata presa da una delle molte lettere che l’autrice ha scritto Ad «A.» , anonima destinataria (di cui ora conosciamo l’identità: Betty Hester, dalla prefazione di Ottavio Fatica: “una lesbica congedata con disonore dall’aviazione statunitense, scrittrice di poesie, racconti e altro materiale mai dato alle stampe, che nel 1998 a settantacinque anni si sarebbe tolta la vita.) di molte sue missive, con la quale l’autrice aveva un rapporto confidenziale e di cui rispettava l’opinione:

Ad «A.»
4 aprile 58
Da domenica notte sono sola a presidiare la fortezza. In piena notte a mia madre è venuto un violento mal di schiena, tanto forte da correre in ospedale in piena notte […].

La fortezza.

Mi chiedo come percepisse la fortezza una personalità quale quella della Flannery… quali erano i confini della sua costruzione bellica? Confini dati dalla natura o dalla malattia? Lei in che centro si collocava? Dentro quale torre? Quella della fede? Quella dell’io? Quella della cultura?

Leggere queste sue missive è stato come rubare un cellulare moderno e scorrere le varie conversazioni in Chat perché lei scriveva dettata dall’impulso di un quotidiano vissuto in modo intenso seppur limitato fisicamente. Confini, forse, non ne aveva…

Qualsiasi cosa le accadesse, qualsiasi pensiero la sfiorasse, qualsiasi recensione fatta o ricevuta, qualsiasi premio letterario, qualsiasi contatto avvenuto, Lei sentiva il bisogno fisico di riportarlo dentro le numerose lettere che scriveva in modo – per nostra fortuna – copioso. E da queste testimonianze il lettore molto capisce della scrittrice e del contesto in cui Ella abita. Un punto di vista personale, interno, preciso, mirato su molte questioni; si va dai commenti ai racconti alla cronaca degli avvenimenti toccando spesso temi di fede o attualità (la nascente moda dei beat o il razzismo, per esempio) ma nulla di più lontano da lei del chiacchiericcio sterile e fine a sé stesso, o del sentenziare intellettuale, anzi, questa “specie” era da lei molto poco tollerata:

Ad «A.»

21 aprile 56

(…) Dice che lì è pieno di giovani scrittori e intellettuali che avrò il piacere di conoscere. Se c’è una cosa che non posso soffrire è un giovane scrittore o intellettuale. Be’, me la sono voluta. Possa Iddio avere pietà dell’anima mia.

Ho adorato lo stile espositivo di questa scrittrice che non conoscevo; l’ho adorato perché come dentro un tavolo da biliardo le sue parole rimbalzano di argomento in argomento, di sponda in sponda, spalleggiando il prossimo in modo cortese ma diretto, onesto ma schietto. Lei e il suo parere.

Assistiamo così, di lettera in lettera, all’evolversi di una malattia che non le lascerà scampo, che le toglierà la capacità di muoversi in autonomia ma non la voglia di comunicare scrivendo.

A Caroline Gordon Tate

Milledgeville, 14 novembre 54

(…) In questo periodo me la cavo a meraviglia a parte uno zoppicamento che mi dicono dovuto ai reumatismi. La gente di colore la chiama «la disgrazia». Sta di fatto che cammino come se avessi un piede sul marciapiede e l’altro no ma non è un grande fastidio e mi risparmia una caterva di cose che non ho voglia di fare.

A Robert Macauley
18 maggio 55

(…) Mi sa tanto che al rientro mi toccherà stare tre mesi giorno e notte nello stazzo del pollame per neutralizzare gli influssi negativi.

A Maryat Lee

11 febbraio 58

(…) No, non vado a Roma né altrove (fuorché in Missouri). Il dottore, è notizia di ieri, dice che non ci posso andare. Tu mica lo sapevi che ho un’ORRIBILE MALATTIA, vero? Be’ ce l’ho. Mio padre è morto della stessa cosa a 44 anni ma i luminari sperano di trattenermi qui fino ai 96. Devo la mia esistenza e quest’aria allegrotta alle ipofisi di migliaia di maiali macellati ogni giorno al conservificio Armour di Chicago, Illinois. Se i maiali portassero dei vestiti, non sarei degna di baciarne nemmeno l’orlo. Sono sette anni che sostengono la mia presenza in questo mondo. Quella che hai conosciuto qui era un prodotto dell’Energia Artificiale. L’orribile malattia si chiama Lupus Eritematoso, ma noi letterati preferiamo chiamarla Lupo Rosso. Insomma, niente Europa. Lo sopporterò col mio proverbiale superbo stoicismo.

A Elizabeth Fenwick Way
22 maggio 60

(…) A quanto dicono, le mie ossa non stanno perdendo calcio; mi fanno delle analisi del sangue particolari per stabilirlo, ma pare che il lupus abbia intaccato i vasi sanguigni che alimentano la parte superiore dei femori, questa almeno sembra l’ipotesi più attendibile. Ma sono d’accordo con te sulla storia di un’aspirina al giorno: la Medicina Migliore del Mondo. L’estate scorsa ogni volta che aprivo la bocca la mandibola mi saltava fuori dalla cavità e il male era tale che non riuscivo a masticare quella bella carne rossa. Per un mese ho preso otto aspirine al giorno e da allora le mandibole non mi hanno più dato problemi.

E mentre sta male, in ospedale, magari scrive lettere sulle sue letture, sul libro di Proust, per esempio, che non credeva di poter amare tanto; oppure sulla voglia di leggere quel tal libro censurato, quello che in biblioteca non le reperiscono, oppure su quello lì, quello tanto chiacchierato, quello di quell’eccellente tal scrittore rinomato…

Oppure ci si ritrova a ficcare il naso sulle sue confidenze su quel tale, quel montanaro del West Virginia che le ha inviato una cartolina raffigurante un rododendro in un prato e che le ha scritto in allegato: «Non sai quanto mi rodo dentro lontano dalle montagne del West Virginia!» ecco, io ora me la immagino pure, la faccia che la O’Connor avrà fatto leggendo questa brillante battuta…

e poi le contestavano il suo dichiarare che un brav’uomo è difficile da trovare!

Mi sono divertita – sì, proprio divertita! – leggendo queste lettere da cui spicca l’ironia dell’autrice e ho trovato interessanti i molti consigli che ha dispensato sull’arte del bel scrivere.

Ogni volta che il narratore onnisciente adotta lo stesso linguaggio dei personaggi, un’opera narrativa perde tensione e cala di tono. Io ce ne ho messo di tempo a impararlo: in materia ho un mentore nella persona della signora Tate che tanto ha detto e ha fatto da rendermi sensibilissima a questo riguardo.
Uno scrittore può anche fare del sentimentalismo su alcuni settori della popolazione e passarla liscia, ma se fa del sentimentalismo sui poveri non la passerà mai liscia. Non saprei a chi paragonare Nelson Algren in questo Paese, dato che non ho mai letto J.T. Farrell né Steinbeck né quant’altri si occupano di derelitti (economicamente derelitti, dico). Però ho letto Céline (Viaggio al termine della notte) e non c’è paragone. In confronto a Céline, Nelson Algren non ha niente dello scrittore serio. Sarà che a un americano non è dato scrivere dei poveri come a un europeo.

Per dirla in soldoni: io scrivo dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Niente mi ripugna più dell’idea di allestire un piccolo universo scelto da me per diffondere un piccolo messaggio immoralistico. Scrivo sulla base di una solida fede in tutti i dogmi cristiani. Trovo che questo non limiti in alcun modo la mia libertà di scrittrice e che amplifichi anziché ridurre la mia visione. A molti piace pensare che per vederci chiaro non bisogna credere in niente. Se osservi le cellule al microscopio può anche andare. Ma non se scrivi narrativa. Per lo scrittore di narrativa, non credere in niente equivale a non vedere niente. Io non scrivo per fare arrivare messaggi a chicchessia, e lo sa anche lei che non è questo lo scopo del romanziere; ma nella vita che vedo scopro un messaggio morale.

Mi fa impazzire questa cosa del punto di vista. Se lo violi, distruggi il senso della realtà e ti impappini con le tue mani. Caroline lo spiega in un manuale suo e di Allen Tate che si intitola The House of Fiction. È molto più complicato di come lo faccio sembrare io. Fatto sta che non ti puoi sedere e scrivere un romanzo. Devi sapere chi vede che cosa e compagnia bella.

Non posso riportare tutte le numerose evidenziature che ho fatto durante la lettura, non posso sia perché non vorrei ricevere lettere minatorie dalla Minimum fax 😀 e sia perché è giusto che il libro ve lo godiate senza troppo spam 😉

Comunque vi garantisco che qui, di cenni storici, letterari, umani, ne trovate a iosa; nomi famosi snocciolati come gusci di pistacchio, uno dopo l’altro, senza pomposità, senza leziosità, senza finto servilismo, senza edulcorazione alcuna seppur mantenendo sempre il tono di scrittura elegante, come asserivo sopra.

Tutto passa al setaccio: la Chiesa, i preti, il bigottismo, il fanatismo, le sdolcinatezze, il potere dei soldi, i dottori, i rapporti amicali, le convenzioni…

La vita è la volontà di Dio e questo i professori non sanno come definirlo: grazie al cielo. Penso sia impossibile vivere e non soffrire ma ho sempre il sospetto che la mia sofferenza sia autocommiserazione in veste d’agnello. E il peggio è soffrire per la ragione sbagliata, per la perdita sbagliata. Nel complesso è meglio pregare che soffrire; ed è più bello gioire che soffrire. Ma per gioire ci vuole una grazia che è appannaggio dei grandi.

Greene creasse una vecchietta, la farebbe acida fino al midollo, tanto che a farla cadere andrebbe in frantumi, mentre se facessi cadere la mia di vecchietta, quella ti rimbalzerebbe davanti gridando: «Gesù mi ama!» Diciamo che io parto da un punto di vista comico, indipendentemente da come lo risolvo

Ecco, sicuramente il nocciolo del mio diletto nel leggere questa raccolta di lettere è proprio questa capacità della Flannery di affrontare tutto partendo da una sfumatura – o arrivandoci – comica.

Anche io ho diverse patologie autoimmuni, anche io ho sofferto in vari modi (fisici ma non solo) e anche io ho sempre cercato di affrontare tutto sfidando gli eventi con il sorriso e con l’autoironia; certo finora ha funzionato ma non so cosa mi riservi il futuro… lo scoprirò leggendo i miei giorni futuri – ma io, qui, non centro, ritorniamo al libro.

“(…) in realtà solo di recente ho capito che non si ottiene niente restando alla superficie delle cose. Come tutti l’ho scoperto a mie spese, e soltanto negli ultimi anni grazie, credo, a due cose: la malattia e il successo. Una soltanto non mi sarebbe bastata, ma l’abbinata è risultata vincente. Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore. Quasi altrettanto isola il successo, e niente mette in luce la vanità altrettanto bene. Ma da queste parti la superficie è sempre stata molto piatta. Vengo da una famiglia dove era rispettabile mostrare un unico sentimento: l’irritazione. È una tendenza che per alcuni sfocia nell’orticaria, per altri nella letteratura, per me in tutte e due le cose”

Io ora mi sono segnata alcuni libri libri della O’Connor di cui ha “parlato” nelle sue lettere; li leggerò e sarà piacevole ripensare alle sue riflessioni in “corso d’opera”.

Questa raccolta epistolare è bella dall’inizio alla fine; non è cosa scontata che le prefazioni catturino l’attenzione e siano interessanti e piacevolissime (superlativo d’obbligo) come questa fatta da Ottavio Fatica.

Faccio i miei complimenti anche alla Minimum fax, casa editrice che, almeno per quanto mi riguarda, non sbaglia un colpo!

In conclusione: leggete questo libro perché ne uscirete rilassati, divertiti, riflessivi, avvolti da un lessico ponderato e motivato anche quando è colloquiale e intimo senza per questo scadere nell’artefizio…

perché se qualche cosa di arifiziale qui c’è è l’abile uso dell’arte della scrittura!

Puoi trovare il libro qui: “Sola a presidiare le fortezza” Flannery O’Connor

11 risposte a "Recensione “Sola a presidiare la fortezza” di Flannery O’Connor"

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  1. Recensione impeccabile, come sempre! Non ho mai letto nulla di Flannery O’Connor, e la tua recensione mi ha convinto: penso proprio che inizierò da questo! 🙂 Un abbraccio, Lisa. 🙂

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  2. WOW! Diciamo che si percepisce appena, proprio vagamente, che ti è piaciuto il libro. 😀

    Comunque sulla copertina, che definirei psichedelica, non riesco a guardarla per più di pochi secondi senza che mi si incrocino gli occhi: portroppo hanno esagerato con la vivdezza e la saturazione, snaturando il soggetto. 😉

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      1. A parte la copertina, ho un brutto rapporto con i libri epistolari. 😦
        “Ultime lettere di Jacopo Ortis” è stato uno dei pochi libri che non sono riuscito a leggere… due (2) volte! E quindi ho paura a riavvicinarmi al genere. Soprattutto se, come dici, l’inizio è piuttosto spiazzante.
        … ma in futuro, chissà: magari potrei ripartire proprio da questo 😉

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        1. Guarda, io te lo consiglio perché è davvero scorrevole e “intelligentemente” divertente. Non ho letto le “Lettere di Jacopo Ortis”. Se penso a un altro romanzo epistolare che ho letto e che mi è rimasto nel cuore, mi viene subito in mente “Lettere d’amore” di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetto. Altro libro che ti consiglio senza esitazione! Ti capisco riguardo alla ritrosia circa un genere letterario… io, per esempio, mi avvicino sempre con estremo sospetto ai fantasy, alla fantascienza, ai gialli… però quando uno di questi, alla fine, mi piace lo considero una BOMBA proprio perché mi è piaciuto. Penso a “Qui” un graphic nobel che mi ha colpito molto nonostante io credessi di non amare il genere. é bello avere dei gusti preferiti ma lo è ancor di più scoprire che libri che credevamo lontani da noi, lo sono meno di quel che credevamo. La capacità di stupirci…
          Ché poi, ovvio, ricredersi, in questi casi, è bello perché non frequente 😉 Avere dei generi meno amati di altri è logico e giusto.

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