
👉 Frase inflazionata ma sempre pertinente: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre”.
Questa citazione potrebbe riassumere il crocevia di persone che abitano “Il tempo di tornare a casa”, libro scritto da Matteo Bussola ed edito con Einaudi sul finire del 2021.
«Vivere, in fondo, non è che una serie di storie che si chiudono e si aprono, un continuo stringere la presa e lasciar andare. Una catena infinita di incontri e di addii». Quante esistenze attraversano una stazione affollata. Dietro i volti delle persone in fila all’edicola o al bancone del bar si nasconde un groviglio di desideri e paure, di dolori e speranze. C’è una donna che non deve partire, eppure resta seduta lì, le borse della spesa ai piedi. C’è un padre che ha smarrito il figlio, e un uomo che sta per separarsi dalla donna della sua vita. C’è un marito che vede un enorme coniglio accanto a sua moglie ogni volta che la guarda, una ragazza che riceve messaggi inattesi, un ragazzo che ha preso una decisione irreversibile. C’è il mistero indecifrabile di ogni incontro capace di farci cambiare strada, e il terrore dell’abbandono sempre dietro l’angolo. Poi c’è uno scrittore con un buffo berretto giallo che si aggira fra i binari dopo aver perso il treno, ed è impaziente di salire sul prossimo. Perché sa che alla fine del viaggio troverà la sua famiglia ad aspettarlo. Perché «l’amore ha sempre, sempre a che fare con qualcuno in grado di riportarti a casa». Con la sua voce inconfondibile, Matteo Bussola racconta il nostro ostinato bisogno degli altri, malgrado la possibilità di ferirsi, di tradirsi, malgrado le accuse o i rimpianti. Il suo è un inno al potere salvifico delle storie, grazie alle quali ci sentiamo tutti meno soli.
Parto con il dire che anche questo suo libro ha la stessa struttura, che a me piace definire a “racconto baciato“😍, dell’altro – famosissimo – libro del Bussola che ho letto lo scorso anno: “Il Rosmarino non capisce l’inverno”
Cosa intendo per “racconto baciato”? Beh, è intuitivo: come le rime si spalleggiano, passandosi testimoni in sillabe, i racconti si susseguono sfumando punti di vista diversi che, in comune, qualche cosa hanno… scrivendo per immagini, ché facile mi viene, è come se la stessa pennellata di colore parta con una sfumatura e termini con un’altra. Tutto è singolo eppure tutto è moltitudine. Tutto è moltitudine eppure tutto è singolo.
Le stazioni sono insiemi di singoli.
Le stazioni sono pregne di un fascino indefinibile.
Disagio, coperte a terra, trolley di marca, cartine gettate a terra, guanti in lattice per non toccare i germi, profumo di incenso, di spezie, di minestrone, di sushi, di caffè bollente, di fritti e rifritti, di acqua di colonia, di lordume e borotalco, di unghie sporche e smalto fresco, di acetone e vino in cartone.
Scene di vita frenetica e annoiata, in fuga, in attesa o in stand by attendendo il responso del destino.
Esalazioni.
Ultimi respiri.
Primo respiri.
Ripartenze.
Binari, finestrini.
Toc toc… chi mi guarda?
Toc toc… mi vedi?
Toc toc… ti importa qualche cosa di me?
Potrei passarci giornate intere, seduta in un angolo, su una panchina di ferro arrugginito o sulla seduta più lontana del bar della stazione; me ne starei semplicemente lì, a guardare quel che succede, a costruire vite partendo da sguardi. Quale altro posto, meglio di una stazione -ma pure di un autobus, del centro commerciale, della panchina sotto la quercia del parco… -, riflette lo spirito di un paese, lo stato d’animo della gente, i suoi problemi, in modo così sfumato eppur contrastante?
✏ Scarpe, passi, direzioni, vite dentro e vite fuori.
Vivere, centro e periferia, nel sè, nel quotidiano, nel percepito, nell’umanità.
Conigli che ti crescono dentro e fuori, simboli onirici o reali, allucinazioni… lo vedi l’elefante in mezzo alla stanza? In realtà ha il pelo bianco e gli occhi rossi e tristi.
⚠️ Alle paure la gomma panna fa un baffo.
Pagliuzze glitterate su caricabatteria a forma di unicorno pagliuzze negli occhi amori inseguiti citati bramati stalckerati truccati con strisce di rossetto rosso sfacciato latte macchiato in attesa di allungarsi con pioggia che stringe sotto ombrelli troppi piccoli – senza virgole, vita, respira.
Scorrimenti, binari, finestrini, affacci.
“Affacci” è una bella parola, se ci penso.
Questo libro È -come l’altro su citato- una sensibilizzazione verso il prossimo, verso quelle finestre di case altre illuminate dalla luce, le sere d’inverno.
Casa dov’è? È un porto sicuro? Una stazione babelica? Dove noi siamo? Dove ci troviamo, ritroviamo… dove ci perdiamo pure?
Si parte, si arriva. Si sta.
“Si viene e si va” come canta Ligabue…
In attesa di tanto, di molto, di significati o significanti.
Persone in attesa di tramatura, ché l’incipit è già stato scritto ma esistono i colpi di scena.
In attesa di niente, talvolta.
In attesa di un solo gesto, alle volte, che dica semplicemente: “Sì, esisti!”
… e la vita di ognuno sfiora – potendo incidere – quella di chi ci passa al fianco restando, comunque, sconosciuto.